Introduzione Generativa
Nuove tecnologie che generano innovazione
Piano, R. (2017), La responsabilità dell’architetto. Conversazione con Renzo Cassigoli. Firenze: Passigli Editori
28 11 2023
«Il mestiere dell’architetto è un mestiere di équipe. È vero che ci sono momenti di solitudine, anche perché se si comunicasse troppo si finirebbe per sapere tutto e non capire più niente. […] l’architettura è un miscuglio di ispirazione artistica e di scienza: questo implica che la creatività nel procedere non sia monotonica ma abbia a che fare con la tecnica, con il calcolo, con i materiali, con il processo di costruzione. Quindi fatalmente non sei solo. E non è vero che tu hai l’idea e la passi a un altro che la fa diventare pratica: questo è esattamente l’opposto del senso di artigianato che io do al mio mestiere. […] In un sistema di artigianato vero, nel senso nobile della parola, o in un mestiere d’arte, il processo è circolare, è un continuo vai e vieni tra il livello dell’ideazione e quello della verifica pratica, per cui non è vero che la tecnica, la scienza, il costruire vengono dopo. Essi fanno parte di questo processo circolare: hai un’idea, la verifichi sul piano della fattibilità o pensi a come la costruisci e torni indietro. Il modo corretto di procedere nel fare architettura […] non è quello di cominciare dal generale per scendere poi al particolare: è così ma, nello stesso momento, vale anche la regola opposta, cioè si va dal particolare al generale» (pp. 13-14).
L’Introduzione Generativa è a cura di
Eugenio Pandolfini
Ph.D., Ricercatore e socio fondatore del Centro Ricerche “scientia Atque usus” per la Comunicazione Generativa ETS.
Dal 2019 è ricercatore a tempo Determinato di tipo A del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Firenze.
Porta avanti attività di ricerca centrate sulla relazione tra tecnologie, territorio e paesaggio, tocco umano.
Con queste parole Renzo Piano argomenta – rispondendo alle domande di Renzo Cassigoli – uno dei nodi concettuali più forti che emergono dalle pagine de La responsabilità dell’architetto: la relazione tra il professionista, il proprio team e il proprio lavoro. A partire da un’idea di ricerca e lavoro “artigianale” molto vicina alle questioni che quotidianamente il Centro Ricerche sAu affronta nei progetti di Comunicazione Generativa in collaborazione con partner e portatori d’interesse che operano attivamente nel progetto.
A parte il rapporto tra etica, impegno sociale e professionalità che caratterizza la professionalità dell’architetto, il dato importante di cui parla Renzo Piano, richiamando la relazione tra il professionista, la sua creatività e gli altri attori che inevitabilmente partecipano ad ogni processo progettuale, è la stretta relazione e il processo non-lineare che lega le fasi di ideazione, progettazione e sviluppo di un oggetto, sia esso un pezzo di design, un’architettura, un brano di paesaggio o un’attività di comunicazione. Un processo che non può partire dal generale per essere imposto e calare dall’alto nell’ambito di riferimento, perché rischierebbe di essere scollegato dal contesto che invece lo deve accogliere. Al tempo stesso, tuttavia, il processo progettuale non può partire esclusivamente dal basso, perché in questo modo risulterebbe strettamente collegato al proprio contesto, ma rischierebbe di non riuscire a fare sistema con altri edifici o, più in generale, con l’intero tessuto urbano. Il sistema di verifica continua («processo circolare») che porta il progettista ad avere un’idea e a verificarla costantemente sul piano concreto, costruendo prototipi, immaginando il futuro, simulando il reificarsi dell’idea stessa – Renzo Piano avvicina questo processo all’idea alta di artigianato – spiega meglio di tanti manuali la logica che dovrebbe essere alla base di ogni progetto, e anticipa un altro tema fondamentale, che deriva direttamente dall’affermazione (sottintesa nel testo ma ben evidente nelle opere di uno degli architetti da sempre più votati alla sperimentazione di soluzioni, tecniche, linguaggi diversissimi tra loro) della assoluta unicità di ogni processo progettuale.
L’artigianalità alla base della professione non deve far pensare, inoltre, ad un’idea di lavoro basata sulla solitudine, orientata alla tradizione, consolidata e chiusa davanti all’innovazione. L’idea di artigianato che Renzo Piano richiama è ben altra, e afferisce alla sperimentazione, alla necessità di uscire dal seminato, di divergere dalla preoccupante tendenza all’omologazione, all’uniformità che caratterizza le nostre periferie, fatte di spazi sempre uguali nei quali trionfa una frammentazione senza alcun progetto. Un’idea di lavoro che mette insieme tantissime professionalità diverse, che arricchiscono il progetto con le proprie competenze, fino ad arrivare alle persone, ai cittadini, coloro che utilizzeranno i risultati concreti del progetto.
«Io uso la gente per fare i progetti, nel senso che cerco di immedesimarmi nella gente», cioè di raccogliere indicazioni su come le persone potrebbero, vorrebbero usare ciò che è ancora in fase di progetto, acquisendo informazioni utili ad evitare di realizzare strutture nelle quali troveranno difficoltà ad orientarsi, che li intimidiranno, che non riusciranno a capire. Con poche, semplici frasi, Renzo Piano restituisce in maniera chiarissima la complessità della professione dell’architetto che – mutatis mutandis – è la complessità insita in tutte le professioni che operano trasformazioni sul piano della realtà: quella di
Il Centro Ricerche sAu da anni porta avanti progetti di ricerca e sperimentazione sulle tecnologie vecchie e nuove, per progettare e realizzare prodotti e servizi che facciano perno sull’intelligenza critica e la creatività umana e favorire uno sviluppo tecnologico che non automatizzi l’uomo ma che, al contrario, lo aiuti a rafforzare la propria autonomia e la propria indipendenza.
interagire e quindi creare potenziali conflitti con tutti gli elementi che costituiscono i sistemi nei quali le nuove opere – siano esse edifici, oggetti di design, campagne di comunicazione, etc. – prenderanno posto.
Conflitti che, tuttavia, saranno generativi di nuove configurazioni, di nuovi assetti, e restituiranno, nel tempo, contesti di vita e di lavoro più aderenti alle necessità dei cittadini. A patto che l’attività di progettazione abbia raccolto e tradotto in pratica i reali bisogni di uso delle persone che saranno poi potenzialmente interessate a usufruire di quanto progettato.
La complessità della professione si esprime anche nell’utilizzo degli strumenti. E probabilmente questa è la parte della conversazione riportata nel libro che più di tutte – pur a distanza di anni – non risente assolutamente del tempo passato, data la straordinaria attualità che ancora la proposta di Renzo Piano esprime. E data anche la consolidata tendenza tutta contemporanea a considerare le nuove tecnologie digitali – che ormai permeano ogni aspetto della nostra vita e del nostro lavoro – alla stregua di deus ex machina, potentissimi strumenti, sempre validi e adatti alla risoluzione di qualsiasi problema. Sono pochi i professionisti che oggi la pensano diversamente e che si pongono in maniera veramente originale rispetto agli strumenti che fanno parte del loro lavoro.
«Io penso che l’architetto, prima di tutto, debba disegnarsi i propri strumenti di lavoro, la propria attrezzatura tecnica e disciplinare. Questa è una delle mie più profonde convinzioni. Se non si interviene sugli strumenti e sui processi si rischia di lavorare su dei margini inconsistenti che lasciano spazio solo a operazioni ineffettuabili e nostalgiche. Questa è la mia artigianalità, una sorta di ritorno alle origini oggi reso necessario anche dalla convenzionalità e dalla massificazione dei processi ideativi. L’architetto deve sperimentare.
Il progetto
Il Centro Ricerche sAu sta lavorando allo sviluppo dell’Ambiente Integrato Atque, una suite di strumenti progettati e realizzata avendo come base un’idea di tecnologia che valorizza l’umanità, l’unicità, la creatività delle persone – partner di progetto, portatori d’interesse – coinvolte nei progetti di Comunicazione Generativa dai ricercatori e dalle ricercatrici del Centro Ricerche sAu.
Nell’antichità progettare voleva dire anche inventare le macchine necessarie per realizzare l’opera. Brunelleschi aveva studiato il meccanismo dell’orologio per applicarlo ad un sistema di grandi contrappesi necessari per sollevare le carpenterie per la Cupola» (p. 40).
L’architetto, il progettista, il comunicatore devono costruire prima di tutto un’architettura disciplinare che orienti la propria professione verso alcuni valori, piuttosto che altri. Una meta-architettura che risponda a tali valori. Che orienti la sperimentazione e la plasmi in maniera coerente alla politica alla base delle proprie scelte progettuali. E ai bisogni delle persone, delle comunità che probabilmente useranno il progetto, il servizio, il prodotto. E il fatto che l’architetto – sia che si occupi di edifici che di testi, di oggetti di design o di progetto di comunicazione – debba inventarsi le proprie macchine, funzionali alla realizzazione di un’opera, non è poi un’idea così nuova, perché da sempre i grandi architetti, i grandi ingegneri, i grandi comunicatori hanno lavorato sperimentando in tutte le fasi del progetto: dall’ideazione alla messa su carta dei primi schizzi – spesso inventando nuove tecniche di rappresentazione, dallo sviluppo del progetto alla messa in cantiere, ideando – come il Brunelleschi che cita Renzo Piano – le macchine per costruire opere che prima non esistevano, e non erano nemmeno concepibili.
Come progettare, come costruire quello che non c’è ancora senza ridefinire ogni volta gli strumenti dell’ideazione e della progettazione?
Non abbiamo bisogno di una tecnologia uniforme, ma di una che sia espressione di trasformazione; che deve poter essere plasmata secondo gli obiettivi unici che il progettista si pone e che sono specifici per ogni contesto su cui opera.
- Toschi, L. (2011), La comunicazione generativa, Milano, Apogeo
- Communication Strategies Lab (2012), Realtà aumentate, Milano Apogeo
- Pandolfini, E. (2019), Il paesaggio nascosto. Quale comunicazione per i luoghi della complessità, Firenze, Olschki