Introduzione Generativa
Norman, D. (2014), La caffettiera del Masochista. Il design degli oggetti quotidiani, Firenze, Giunti
«Le persone sono frustrate dagli oggetti quotidiani. Dalla complessità sempre maggiore del cruscotto dell’auto alla crescente automazione in casa, con le sue reti interne, la proliferazione di sistemi complessi per il tempo libero e la comunicazione (video, audio, giochi elettronici) e le cucine sempre più tecnologiche, la vita di tutti i giorni sembra a volte una battaglia infinita contro la confusione, gli errori continui e la frustrazione, e un ciclo interminabile di aggiornamento e manutenzione degli apparecchi» (p. 25).
Con queste parole Donald Norman introduce, nelle prime pagine de La caffettiera del Masochista, uno dei temi portanti del volume, che costituisce il fulcro delle sue riflessioni sulla relazione tra esseri umani e nuove tecnologie: la frustrazione, il senso di disagio che un oggetto (o un servizio) progettato male diffonde tra le persone che hanno la sfortuna di trovarsi ad usarlo. Ognuno di noi, andando indietro con la memoria, potrebbe citare casi di prodotti che si sono rivelati scomodi da usare, dispendiosi dal punto di vista energetico, eccessivamente complicati da far funzionare.
Tutte situazioni nelle quali, facendo un primo bilancio, ci siamo trovati a riflettere sulle nostre mancanze a livello di utenza, sulle nostre incapacità manuali, sulle nostre difficoltà a capire “come funziona”.
L’Introduzione Generativa è a cura di
Eugenio Pandolfini
Ph.D., Ricercatore e socio fondatore del Centro Ricerche “scientia Atque usus” per la Comunicazione Generativa ETS.
Dal 2019 è ricercatore a tempo Determinato di tipo A del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Firenze.
Porta avanti attività di ricerca centrate sulla relazione tra tecnologie, territorio e paesaggio, tocco umano.
Norman ci mette in guardia sul vero problema: non tanto la nostra incapacità, la nostra impreparazione davanti alle nuove tecnologie, quanto l’impatto che hanno sulla nostra vita gli oggetti progettati male. E ci illustra quali sono i problemi che determinano interazioni “perverse” con i tanti oggetti di uso quotidiano che ormai fanno parte della nostra vita.
Al di là del senso di colpa che ci assale quando ci troviamo tra le mani un prodotto che funziona male, il vero tema sul quale Norman si concentra è la complessità del mondo in cui viviamo. Complessità che deve essere affrontata sia a livello di uso, di vita quotidiana, dai semplici cittadini/utenti, sia – soprattutto – a livello di design, dai progettisti che ideano e creano quei prodotti che un giorno arriveranno sul mercato. Nell’esperienza degli utenti convergono aspetti tecnologici, processi cognitivi quasi sempre inconsci, comportamenti relazionali, connotazioni estetiche, sensazioni emotive.
Dalla parte dei designer, per contro, «la progettazione richiede gli sforzi combinati di molti specialisti diversi. Il numero delle discipline che intervengono nella creazione di un prodotto di successo è impressionante. La buona progettazione richiede bravi progettisti, ma non basta: ci vogliono anche bravi manager, perché la parte più difficile per arrivare a un prodotto buono è coordinare tutte le discipline coinvolte, ciascuna con finalità e priorità diverse. Ogni specialista ha una sua visione dell’importanza relativa dei tanti fattori che entrano in gioco. Uno sostiene che il prodotto deve essere usabile e comprensibile, un altro che dev’essere esteticamente attraente, un altro ancora che deve avere un costo contenuto. Inoltre, deve essere affidabile e non creare problemi di produzione e manutenzione» (p. 51).
Un processo transdisciplinare, che coinvolge professionisti afferenti a settori diversi tra loro, che esprimono necessità e bisogni spesso contrastanti tra loro, non necessariamente allineati con i bisogni degli utenti, che necessitano, quindi, di un’attenta orchestrazione e di un coordinamento serrato
La soluzione che Norman propone, e che lo ha confermato una delle voci più autorevoli nel suo campo, prende il nome di design antropocentrico, «un’impostazione che parte dai bisogni, capacità e comportamenti umani, adattando poi la progettazione a quei bisogni, quelle capacità e quei comportamenti. Il buon design parte dalla conoscenza della psicologia e della tecnica. Richiede una buona comunicazione, specialmente dalla macchina alla persona, che indichi quali azioni sono possibili, cosa è successo e cosa sta per succedere» (p. 26).
Il tema della comunicazione è centrale: tra professionisti, tra tecnici, a livello di processo progettuale e realizzativo, certo, ma anche – e soprattutto – con le persone che dovranno usare il prodotto nelle loro attività di tutti i giorni. Per questo il buon design non può che partire da una conoscenza approfondita sia delle questioni tecniche che di quelle psicologiche. Il buon designer deve conoscere le persone, come pensano, come si comportano. Le pagine che Norman dedica ai temi della comunicazione e della psicologia sono sicuramente tra quelle più interessanti del libro, velate da una sottile ironia che le rende ulteriormente piacevoli alla lettura. Ironia che tocca il suo apice proprio quando si parla della conoscenza che – tendenzialmente – chi si occupa di design sostiene di avere delle persone che lo circondano e che costituiscono il target per un dato prodotto, dando per scontato modi d’uso, comportamenti, reazioni.
Il Centro Ricerche sAu da anni porta avanti progetti di ricerca e sperimentazione sulle tecnologie vecchie e nuove, per progettare e realizzare prodotti e servizi che facciano perno sull’intelligenza critica e la creatività umana e favorire uno sviluppo tecnologico che non automatizzi l’uomo ma che, al contrario, lo aiuti a rafforzare la propria autonomia e la propria indipendenza.
È questo il nodo centrale del volume, che apre a considerazioni molto più estese e rilancia temi attualissimi e strettamente connessi al dibattito di questi nostri giorni sul Machine Learning e sull’Intelligenza Artificiale. Norman ci ricorda in maniera decisa come mente e cervello siano entità complesse, che funzionano in stretta connessione tra loro e – soprattutto – con un forte, profondo legame con le emozioni che la persona prova nello svolgere determinati compiti, azioni, attività.
Un piano, quello delle emozioni, delle reazioni inconsce, che è ampiamente sottovalutato dai professionisti, dai tecnici che si occupano di design, per una sorta di equivoco relativo alla lucidità e alla consapevolezza costante che l’utente-tipo metterebbe in campo durante tutte quelle attività quotidiane che lo mettono a confronto con oggetti, tecnologie, interfacce. Un piano, invece, che è fondamentale considerare attentamente ai fini di una progettazione di nuovi oggetti di design e di nuove tecnologie che siano effettivamente centrata sull’essere umano.
«Dato che ci rendiamo conto solo del livello riflessivo di elaborazione conscia, tendiamo a credere che tutto il pensiero umano sia conscio. Ma non è così. Tendiamo anche a credere che il pensiero si possa separare dall’emozione. Anche questo è falso: cognizione ed emotività non si possono separare. I pensieri suscitano emozioni e le emozioni a loro volta mettono in moto il pensiero. […] L’aspetto emotivo è ampiamente sottovalutato, mentre in realtà è un potente sistema di elaborazione dell’informazione, che opera in tandem con le funzioni cognitive. La cognizione cerca di interpretare il mondo, l’emozione gli assegna un valore. È il sistema emotivo a determinare se una situazione è sicura o pericolosa, se quello che avviene è buono o cattivo, desiderabile o no. La cognizione produce comprensione, l’emozione giudizi di valore. […] Poiché gran parte del comportamento umano è subconscia, ossia avviene senza consapevolezza diretta, spesso non sappiamo cosa stiamo per fare, dire o pensare, finché non l’abbiamo fatto. È come se avessimo due menti, una conscia e una subconscia, che non sempre comunicano fra loro» (p. 63).
Con uno spunto che poi recupera e approfondisce nell’ambito di tutto il volume, Norman ci ricorda come il pensiero dell’uomo – il lato che tradizionalmente attribuiamo alla cognizione – sia solo un lato della medaglia. Il pensiero deve essere contestualizzato nel momento in cui si incarna in una persona, che ha un corpo, e che agisce anche a seguito di reazioni che sono tattili, di emozioni che sono imprevedibili, di processi mentali che sono inconsci e che, quindi, è difficile prevedere in fase di progetto.
Ci sono studi – ci ricorda Norman – che evidenziano come usiamo la parte logica e razionale del nostro cervello a posteriori, per giustificare e “razionalizzare” le nostre decisioni, le nostre azioni dopo averle compiute spinti da processi inconsci e irrazionali. Usiamo la logica a cose fatte, per scendere a patti con le nostre scelte dettate dall’elaborazione subconscia, che è più rapida, automatica, e che ci mette in movimento senza sforzo.
Lo scenario dei nuovi studi scientifici e – più in generale – del dibattitto sulla coscienza in relazione all’Intelligenza Artificiale continua a confermare il punto di vista di Norman su quanta intelligenza profusa nei nostri comportamenti, nel nostro parlare, nel nostro agire, sia realizzata da processi in buona parte non coscienti. Tanto che una delle sfide che si delineano per il futuro degli studi sull’Intelligenza Artificiale si centra proprio sul piano della coscienza artificiale.
Il progetto
Il Centro Ricerche sAu sta lavorando allo sviluppo dell’Ambiente Integrato Atque, una suite di strumenti progettati e realizzata avendo come base un’idea di tecnologia che valorizza l’umanità, l’unicità, la creatività delle persone – partner di progetto, portatori d’interesse – coinvolte nei progetti di Comunicazione Generativa dai ricercatori e dalle ricercatrici del Centro Ricerche sAu.
- Capra, F. (2004), La scienza della vita. Le connessioni nascoste fra la natura e gli esseri viventi, Milano, Rizzoli
- Toschi, L. (2011), La comunicazione generativa, Milano, Apogeo
- Does AI Have a Subconscious? www.wired.com/story/does-ai-have-a-subconscious (Ultima consultazione in data 10/10/2023).