Introduzione Generativa
Engelbart, D. (1962), Augmenting the Human Intellect: A Conceptual Framework, Menlo Park, Stanford Research Institute
Mentre la cultura digitale dell’italiana Olivetti si muove secondo una prospettiva di forte attenzione ai processi di socializzazione che tengano in primo piano il rapporto fra “persona” e “comunità”, ben ancorata, peraltro, a una cultura d’impresa che credeva nelle proprie responsabilità sociali, innanzi tutto verso il territorio, al di là dell’oceano Ted Nelson sta lavorando al progetto Xanadu, ruotante attorno al concetto che un qualsiasi documento è un’entità che può entrare a far parte di una rete globale di interscambio e interconnessione di testi (l’ipertesto, 1965), affidata a una rete di calcolatori di dimensione mondiale, la quale vive della possibilità di manipolare senza sosta quegli stessi testi e informazioni, aggregandoli e disgregandoli incessantemente: un’innovazione che egli riteneva, al tempo stesso, essere all’insegna di una fondamentale continuità rispetto alla tradizione letteraria. E intanto che le arti si fanno più attente alle tecnologie (o viceversa, si pensi a Billy Klüver), orientandosi verso happening dagli sperimentalismi linguistici imprevedibili e irripetibili (da Allan Kaprow al movimento Fluxus, a John Cage), in cui si cerca con costanza di rendere lo spettatore un soggetto più attivo rispetto alla realizzazione dello spettacolo, in cui i nuovi (allora) mezzi di comunicazione entrano come personaggi sulla scena (a iniziare da Nam June Paik), c’è chi come Roy Ascott che comprende e sperimenta l’uso del computer come forma di espressione artistica, dando contributi fondamentali alla nascente computer/telematic art.
L’Introduzione Generariva è a cura di
Luca Toschi
Una folla di eventi, di persone, di cui qui si ricorda solo una parte minima, ma soprattutto uno sperimentalismo incessante, onnivoro. Il clima è quello di progettare e tentare di praticare cose e situazioni ritenute dalla cultura dominante irrealizzabili, di “pensare l’impossibile”. Né deve trarci in inganno che quest’ultima espressione sia stata poi cosparsa di retorica intollerabile, fino a renderla odiosa: ciò è avvenuto proprio per azzerare la forza d’urto socialmente sovversiva che assunse in poco tempo la libertà d’immaginare ciò che il buon senso delle buone pratiche riteneva visionario, inconcludente, inutile.
Molte di quelle, infatti, furono intuizioni anticipatrici, si rivelarono architetture di paesaggi simbolici e fisici che gli ultimi anni del secolo passato e i primi di questo hanno solo cercato di materializzare, nemmeno troppo bene, anzi spesso deviando i ‘prodotti’ realizzati da quella che era la visione sociale ed economica originaria.
Si ricordi allora, per esempio, l’opera di Myron Krueger che già nel 1969 stava sperimentando, con Dan Sandin, prototipi di responsive environments, quelli da cui provengono anche le contemporanee ricerche a vario titolo ruotanti attorno a «Ambient Intelligence and Smart Enviroments». Krueger, un personaggio, seppure fra i tanti, importante, per aver cercato di spostare, nel rapporto ricordato fra arte e interattività, il baricentro della sperimentazione e della riflessione sull’arte, leggi uso consapevolmente creativo, divergente rispetto al sistema dominante, dell’interattività.
Ecco il cuore pulsante dell’idea di aumentare la realtà, quel cuore che oggi dovrebbe riattivarsi per dare un significato socio-economico veramente innovativo, non tanto alle nuove tecnologie, quanto al superamento della crisi che stiamo attraversando, spostando definitivamente l’asse delle discussioni e dei progetti circa le Smart Cities
dalla tecnologia alla qualità del vivere sociale, ridefinendo l’identità stessa di “risorse”. Arte dell’interattività: che è tutt’altra cosa dall’arte che offre al fruitore possibilità d’interagire in qualche modo con il testo artistico. Un concetto già allora fondamentale, con cui si intendeva sottolineare la natura linguistica dell’interazione, il bisogno urgente di andare oltre il semplice gesto e di interrogarsi sul significato che poteva assumere l’azione del lettore/spettatore/pubblico/utente sul prodotto artistico: una visione oggi ancor più importante e strategica nel definire la literacy digitale, e più in generale le competenze, le abilità, le conoscenze linguistiche degli utenti rispetto alle tecnologie della comunicazione di cui disponiamo.
Una prospettiva questa, del diritto/dovere a una educazione all’interazione, che Krueger esprimeva sottolineando come i suoi responsive environments avrebbero potuto trasformare proprio gli ambienti e quindi le modalità e i contenuti dell’apprendimento. Nel 1977 avrebbe ribadito: «Our entire educational system is based on the assumption that thirty children will sit still in the same room for six hours a day and learn. This phenomenon has never been observed in nature».
Alla vigilia del Natale di quel 1968, che tanto avrebbe significato nella nostra storia
socio-culturale, Doug Engelbart presenta la sua macchina per elaborare simboli e per ‘aumentare’ la mente umana («By ‘augmenting human intellect’ we mean increasing the capability of a man to approach a complex problem situation, to gain comprehension to suit his particular needs, and to derive solutions to problems.»): non solo le menti di individui, ma la mente dell’intera umanità, quell’umanità che di lì a pochi mesi (luglio 1969) si sarebbe potuta vedere, dagli schermi dei televisori del mondo intero, in diretta dalla Luna, come una comunità unica, sospesa laggiù in un universo buio e vuoto, come solo a Dio, prima di allora, era dato di vedere. La rivoluzione, nel caso di Engelbart, è fatta di un mouse, di posta elettronica, di un sistema per scrivere, di un’interfaccia grafica ecc., specialmente di un bisogno di porre al centro delle pratiche umane, anche di quelle più comuni, la conoscenza.
Cultura e Società
L’interazione uomo macchina è vista come un processo che mira a generare identità nuove lato uomo ma anche lato strumento, considerando una possibilità concreta che quest’ultimo possa aspirare a vivere di vita propria (il calcolatore Hal 9000, la cui intelligenza artificiale si ribella all’uomo nel film 2001: A Space Odyssey, di Stanley Kubrick, è dello stesso 1968).
È importante rilevare che gli effetti di questa ondata di ricerca si concentrano progressivamente sulla necessità di cambiare l’organizzazione del lavoro, abbandonando – o dicendo di voler abbandonare — il modello taylorista per un modello completamente diverso che veda la suddetta conoscenza fortemente sostenuta da un diritto all’apprendere che va oltre i tradizionali anni della scuola e dell’università (per chi poteva), riscrivendo il rapporto fra mondo del lavoro e apprendimento, come un’energia — personale e sociale — da individuare e da valorizzare, portandola a sistema. In tutti i settori, da quello economico a quello dell’intrattenimento, anche quest’ultimo considerato un momento formativo di eccezionale valore.
Sempre Engelbart, nel suo Augmenting Human Intellect (1962), spiegava che il suo progetto non voleva proporre «isolated clever tricks», che aiutano in specifiche situazioni. Ciò per cui stava lavorando era la creazione di un particolare «way of life», e cioè di un «integrated domain», un territorio, quindi, costruito in maniera che le intuizioni immateriali, lo «human ‘feel for a situation», potessero coesistere in maniera produttiva con «powerful concepts, streamlined terminology and notation, sophisticated methods» e «high-powered electronic aids».
Un punto fondamentale perché spiega come già allora fosse ben chiaro che la progettazione e le pratiche rese possibili dall’interazione uomo-macchina non potevano essere collocate al di fuori di un’interazione sociale. L’interazione dava vita, di fatto, a un soggetto sociale nuovo, ridisegnando l’intero assetto socio-economico.
La sua posizione in proposito è chiarissima (e bene rispecchia la situazione attuale che altro non è che un’accelerazione impressionante di quanto già allora stava avvenendo): le ragioni per cui non è più rinviabile la necessità di «augmenting man’s intellect» nascono dal bisogno di fronteggiare una situazione mondiale in cui la popolazione e il suo «gross product» stanno crescendo in maniera considerevole, determinando una complessità globale ormai prossima alla perdita di controllo. Siamo davanti a un «urgency» storica, che in quanto tale impone di trovare soluzioni nuove al susseguirsi di problemi di genere altrettanto nuovo. Uno scenario per governare il quale l’uomo risulta impreparato, le discipline tradizionali non in grado di fornire soluzioni adeguate, le soluzioni parziali fuorvianti: si impone, infatti, la definizione di un sistema ‘altro’ da quello da cui proveniamo, la necessità di un «conceptual framework» adeguato. In altre parole deve nascere una cultura che sia in grado di creare una società, un’economia, una politica, un’interiorità nuove. Perché se la comunicazione risulta essere il campo di battaglia strategico per questo processo di
mondializzazione, è altrettanto vero che questa dimensione pubblica non può prescindere da un’operazione analoga sul fronte più privato, quello che investe il rapporto interiore, intrapsichico, dei vari soggetti. Il filo rosso di questa investigazione transdisciplinare continua a essere quello che cerca nello sviluppo tecnologico le risorse fisiche e simboliche per governare un mondo che appare intrecciato come non lo era stato in precedenza, fortemente collegato, connesso a una velocità che la storia umana non ha nemmeno immaginato essere possibile. Sistemi che s’incontrano, collidono, generano altri sistemi, in un affollarsi di autopoiesi che stravolge ogni assetto fisico (dall’ambiente all’economia alla politica) e simbolico (la comunicazione ha messo in atto un processo incessante di convergenze e conseguenti divergenze al di fuori di ogni paradigma praticabile). Davanti al caos assunto a sistema non è solo il vecchio ad apparire inaffidabile, ma anche il nuovo, che rischia così di perdere la sua forza dialettica, conflittuale, rigenerativa nei confronti degli assetti tradizionali: tutto è vecchio e tutto è nuovo. La necessità di avvalersi di macchine e di automatismi tali da capire quello che l’uomo sembra non riuscire più a comprendere è una speranza prima ancora che un dato di fatto. La mondializzazione investe tutte le culture, indipendentemente dalla forza economica, politica che esse mostrino di avere.
La necessità di sapere, a questo punto, non solo si declina come in nessun caso nella nostra Storia, ma assume un significato, una natura che la storia dell’uomo non aveva registrato. La percezione, prima di ogni consapevolezza, che si stia procedendo a vista, che i consueti paradigmi, gli schemi, i modelli, le stesse mappe non corrispondano più ai territori che si sta attraversando, che la sperimentazione non sia più privilegio di pochi ma esperienza di tutti, perché tutti, nei fatti, sono assunti al ruolo di ricercatori, di esploratori, di sensori, porta naturalmente la persona – ma anche i soggetti collettivi — a cercare strumenti che consentano di immergersi in questa realtà ontologicamente nuova.
- Engelbart, D. (1962), Augmenting the Human Intellect: A Conceptual Framework, Menlo Park, Stanford Research Institute
- Krueger, M. W. (1977), Responsive environments, New York, Association for Computing Machinery