Il patrimonio culturale, l’arte, i paesaggi sono organismi viventi?
Di cosa parliamo davvero quando parliamo di patrimonio culturale?
È questa la domanda con la quale Tomaso Montanari avvia la sua riflessione sui motivi per i quali ci interessiamo alla cultura, all’arte, al paesaggio, contribuendo in maniera determinante a un dibattito – quello sui beni culturali e la loro tutela – che si focalizza «sul possesso e sulla conservazione, sull’identità nazionale e sulla proprietà privata, sulla tutela e sulla valorizzazione […]» ma che forse tende a dare per scontato i motivi intrinseci della sua importanza e il concetto stesso del suo valore.
Valore che che viene identificato con le potenzialità educative dell’arte, della letteratura, del paesaggio: ricomponendo la frattura tra cultura e cultura popolare, e superando la contrapposizione tra ricchi e poveri, Montanari presenta il patrimonio culturale come uno strumento per l’educazione a una rinnovata idea di cittadinanza.
Autore: Tomaso Montanari
Anno: 2023
Editore: Einaudi
Luogo di pubblicazione: Torino
Come possiamo recuperare questi valori?
Montanari propone di provare a ristabilire una relazione intima con il patrimonio culturale, sforzandosi di riconoscere in esso il valore culturale e sociale della civitas, ovvero di tutte quelle persone che hanno progettato, costruito, studiato, osservato, amato quei monumenti, quelle opere, quei paesaggi. Persone che facevano parte delle élite, certo, ma anche scalpellini, mosaicisti, manovali, agricoltori, semplici cittadini.
I primi e gli ultimi, insieme, hanno costruito questo patrimonio, lo hanno osservato e apprezzato nei secoli, e ci hanno lasciato dentro traccia delle proprie pulsioni, dei propri sentimenti, delle proprie idee. Per questo Montanari chiama in causa Primo Levi – «se gli occhi guardano con amore, se amore guarda, essi vedono» – e insieme ci ricordano che ci vuole amore per guardare al patrimonio culturale, bisogna mettere in gioco quei sentimenti, quei sensi – come il tatto – che ci aiutano quando le parole non bastano. Il discorso si spinge oltre: «Come non vedere che il patrimonio culturale è […] terribilmente vivo, presente, attivo? Tanto vivo e presente che, a volte, attraversando una chiesa o il sito di un’antica città viene da chiudere gli occhi e il cuore per non essere sopraffatti, travolti, dai morti che, come dannati danteschi, cercano di attirare la nostra attenzione di vivi, di catturare il nostro sguardo, la nostra compassione»
Il patrimonio culturale, il paesaggio, quindi, si comportano come organismi viventi, come persone. E dobbiamo provare a stabilire un rapporto con ogni elemento che costituisce questo patrimonio, trovando per ognuno il verso giusto. Al tempo stesso, tuttavia, si tratta di oggetti costruiti dagli uomini, per cui si portano dietro un progetto, un’idea. Che può contrastare con il nostro progetto, con la nostra idea, ma che possiamo ri-definire, ri-significare se abbiamo il coraggio di prendere in mano brani della nostra realtà, pezzi del nostro passato per riscriverli e attualizzarli (la nostra storia è ricca di esempi in tal senso).
Cultura e Società
Eugenio Pandolfini
Ph.D., Ricercatore e socio fondatore del Centro Ricerche “scientia Atque usus” per la Comunicazione Generativa ETS. Consulente presso Lab CfGC. Ricercatore a tempo Determinato di tipo A del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Firenze
L’educazione sentimentale al patrimonio culturale che Montanari presenta è una proposta tanto necessaria quanto complessa da mettere in pratica. Perché comporta uno sforzo notevole e soprattutto divergente rispetto all’urgenza dell’eterno presente. E alla dominante cultura del consumo, di tutto e di tutti.
Comporta la liberazione del tempo, la prassi di un nobile otium che permetta la riflessione, la comprensione, l’analisi a passo d’uomo di quello che abbiamo davanti e che spesso nemmeno vediamo più.
Comporta la costruzione di lenti specifiche per vedere al di là del nostro naso, per cui alcune letture difficili hanno bisogno di lenti la cui costruzione non può essere né veloce né affrettata.
Comporta, soprattutto, una scelta di campo, quella di perseguire la via della polis, della cittadinanza come riconoscimento e impegno nei confronti della comunità, in un contesto profondamente ostile, in cui è l’individualismo la cifra distintiva che caratterizza la società contemporanea.
E per coloro che già svolgono un lavoro intellettuale, comporta uno sforzo ancora maggiore. Perché il tentativo di sottrarsi alla dittatura del presente, concentrandosi sul passato, di ricostruire un legame con le nostre radici, caratterizzato da una critica costante che ci indirizzi verso “nuove sorti e progressive”, di tornare ad esplorare i paesaggi della nostra vita interiore – per ricostruire quei ponti con i paesaggi concreti che sono fuori di noi -, si dovrebbe porre come l’obiettivo di tutti coloro che studiano, si occupano, fanno ricerca nell’ambito delle scienze umane. E non solo, aggiungiamo noi. Tutti questi studiosi, ricercatori, esperti non possono più rimandare un confronto concreto e operativo tra la ricerca astratta (quella che possiamo chiamare scientia) e l’uso che si fa di questa ricerca (usus), al di fuori delle aule universitarie, nel mondo, dove ce n’è più bisogno.
Come possiamo recuperare questi valori?
Montanari propone di provare a ristabilire una relazione intima con il patrimonio culturale, sforzandosi di riconoscere in esso il valore culturale e sociale della civitas, ovvero di tutte quelle persone che hanno progettato, costruito, studiato, osservato, amato quei monumenti, quelle opere, quei paesaggi. Persone che facevano parte delle élite, certo, ma anche scalpellini, mosaicisti, manovali, agricoltori, semplici cittadini.
I primi e gli ultimi, insieme, hanno costruito questo patrimonio, lo hanno osservato e apprezzato nei secoli, e ci hanno lasciato dentro traccia delle proprie pulsioni, dei propri sentimenti, delle proprie idee. Per questo Montanari chiama in causa Primo Levi – «se gli occhi guardano con amore, se amore guarda, essi vedono» – e insieme ci ricordano che ci vuole amore per guardare al patrimonio culturale, bisogna mettere in gioco quei sentimenti, quei sensi – come il tatto – che ci aiutano quando le parole non bastano. Il discorso si spinge oltre: «Come non vedere che il patrimonio culturale è […] terribilmente vivo, presente, attivo? Tanto vivo e presente che, a volte, attraversando una chiesa o il sito di un’antica città viene da chiudere gli occhi e il cuore per non essere sopraffatti, travolti, dai morti che, come dannati danteschi, cercano di attirare la nostra attenzione di vivi, di catturare il nostro sguardo, la nostra compassione»
Il patrimonio culturale, il paesaggio, quindi, si comportano come organismi viventi, come persone. E dobbiamo provare a stabilire un rapporto con ogni elemento che costituisce questo patrimonio, trovando per ognuno il verso giusto. Al tempo stesso, tuttavia, si tratta di oggetti costruiti dagli uomini, per cui si portano dietro un progetto, un’idea. Che può contrastare con il nostro progetto, con la nostra idea, ma che possiamo ri-definire, ri-significare se abbiamo il coraggio di prendere in mano brani della nostra realtà, pezzi del nostro passato per riscriverli e attualizzarli (la nostra storia è ricca di esempi in tal senso).
L’educazione sentimentale al patrimonio culturale che Montanari presenta è una proposta tanto necessaria quanto complessa da mettere in pratica. Perché comporta uno sforzo notevole e soprattutto divergente rispetto all’urgenza dell’eterno presente. E alla dominante cultura del consumo, di tutto e di tutti.
Comporta la liberazione del tempo, la prassi di un nobile otium che permetta la riflessione, la comprensione, l’analisi a passo d’uomo di quello che abbiamo davanti e che spesso nemmeno vediamo più.
Comporta la costruzione di lenti specifiche per vedere al di là del nostro naso, per cui alcune letture difficili hanno bisogno di lenti la cui costruzione non può essere né veloce né affrettata.
Comporta, soprattutto, una scelta di campo, quella di perseguire la via della polis, della cittadinanza come riconoscimento e impegno nei confronti della comunità, in un contesto profondamente ostile, in cui è l’individualismo la cifra distintiva che caratterizza la società contemporanea.
E per coloro che già svolgono un lavoro intellettuale, comporta uno sforzo ancora maggiore. Perché il tentativo di sottrarsi alla dittatura del presente, concentrandosi sul passato, di ricostruire un legame con le nostre radici, caratterizzato da una critica costante che ci indirizzi verso “nuove sorti e progressive”, di tornare ad esplorare i paesaggi della nostra vita interiore – per ricostruire quei ponti con i paesaggi concreti che sono fuori di noi -, si dovrebbe porre come l’obiettivo di tutti coloro che studiano, si occupano, fanno ricerca nell’ambito delle scienze umane. E non solo, aggiungiamo noi. Tutti questi studiosi, ricercatori, esperti non possono più rimandare un confronto concreto e operativo tra la ricerca astratta (quella che possiamo chiamare scientia) e l’uso che si fa di questa ricerca (usus), al di fuori delle aule universitarie, nel mondo, dove ce n’è più bisogno.
Cultura e Società
Eugenio Pandolfini
Ph.D., Ricercatore e socio fondatore del Centro Ricerche “scientia Atque usus” per la Comunicazione Generativa ETS. Consulente presso Lab CfGC. Ricercatore a tempo Determinato di tipo A del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Firenze
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